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Per Aspera Ad Veritatem n.4
Geopolitica dei musulmani nei Balcani

Carlo Emilio MILANI




Il ruolo delle popolazioni musulmane, o prevalentemente musulmane, nei Balcani è da tempo l'elemento intorno a cui ruotano alcune fra le previsioni più pessimistiche, talvolta addirittura apocalittiche, sul futuro della regione. Questi temi sono usciti dall'ambito ristretto degli specialisti e personalità che, a livello internazionale, hanno cominciato a occuparsene ancora prima dell'inizio del conflitto jugoslavo, e sono ormai approdati anche al dibattito giornalistico.
Scopo di quest'articolo è la determinazione sintetica di alcuni dei problemi geopolitici e strategici posti da quella che viene impropriamente chiamata la "questione islamica" nei Balcani; nonché l'individuazione e la descrizione di alcuni degli scenari di potenziale destabilizzazione dell'area ad essa collegati.

Il primo elemento da considerare è l'eterogeneità dell'Islam balcanico. Una eterogeneità che riguarda anzitutto la funzione che l'elemento confessionale svolge all'interno delle stesse popolazioni. In alcuni casi, infatti, la fede musulmana è l'elemento fondante dell'identità del gruppo, come nel caso dei Musulmani bosniaci, che non hanno un orizzonte etnico al di là di esso. E che anzi, proprio per questo motivo, hanno dovuto costantemente respingere i tentativi croati e serbi di assimilazione etnica al proprio gruppo (1) , ritrovando una propria entità etnica separata di "Boshnaci". In altri casi, invece, la fede musulmana è una qualità della maggioranza (ma non necessariamente della totalità) del gruppo considerato, che ha una identità etnica non completamente assimilabile all'elemento confessionale propriamente detto: è questo il caso, ad esempio, degli Albanesi di Albania, del Kossovo e della Macedonia. Oppure delle popolazioni "turche" in Bulgaria e nella Tracia greca, definite soprattutto sulla base della (più o meno presunta) origine etnica, da cui "discende" l'elemento religioso.
Questa eterogeneità, che di seguito verrà analizzata più in dettaglio, ha una serie di importanti conseguenze sul problema che viene qui considerato.
Anzitutto, essa impedisce di considerare allo stato attuale la presenza musulmana nei Balcani come fenomeno unitario, anche e soprattutto per le sue conseguenze strategiche. La diversità delle condizioni, dei fondamenti etnici, delle vicende storiche delle popolazioni musulmane nei Balcani rende impossibile analizzarle, allo stato attuale ed a livello di aggregazioni sociali, come un elemento avulso dalla situazione dei gruppi e dei paesi cui appartengono. Non si può quindi parlare propriamente di Islam balcanico, ma di musulmani appartenenti al singolo paese e ai singoli gruppi etnici (2) .
Secondo elemento importante, speculare al primo, è l'esistenza comunque di un vincolo religioso oggettivo che lega questa galassia di popolazioni diverse. Ciò fornisce un potenziale di integrazione strategica oggettivo, che una serie di catalizzatori possono far emergere, soprattutto per quanto riguarda il ruolo geopolitico di queste popolazioni (3) .
È in questa prospettiva che si colloca il tema della cosiddetta dorsale verde, cioè del blocco geopolitico e strategico ottenuto unendo idealmente le popolazioni musulmane nei Balcani, il cui effetto immediato sarebbe la frantumazione traumatica della coesione e dell'integrità degli Stati ospitanti, con effetti devastanti sugli equilibri dell'area. Questo in particolare per l'impatto sui punti forti della geopolitica balcanica, e cioè il controllo degli assi di comunicazione della parte sud-occidentale della regione.
L'orizzonte futuro dei Musulmani nei Balcani oscilla quindi idealmente tra lo stato di divisione attuale ed un riavvicinamento politico che sarebbe necessariamente basato sulla presenza di alcuni catalizzatori, quali l'esistenza di un nemico comune, reale o percepito, nonché l'influenza di fattori esterni. Un'eventualità che, a livello di élites di potere, si realizzerebbe creando una saldatura non di popolo ma di fini e comportamenti politici dei ceti dominanti.
Uno degli elementi storico-operativi più importanti per il comportamento futuro dell'Islam nei Balcani è la natura difensiva dell'autoidentificazione musulmana delle popolazioni interessate. Questo fattore ha le sue radici nella oggettiva e diffusa compressione che ha caratterizzato la vita delle popolazioni musulmane dalla nascita degli stati nazionali Slavi della regione. Basti ricordare, a questo riguardo, la politica di occupazione etnica dei "territoires a prendre" incardinata sugli assi della Nishava, del Vardar e della Morava, prima e soprattutto dopo le guerre balcaniche, operata dagli stati nazionali slavi ed in particolare dalla Serbia-Jugoslavia.
Questi eventi vengono uniti, nell'immaginario collettivo e mitopoietico dei Musulmani, ad eventi recenti come la persecuzione ed espulsione di massa della popolazione musulmana in Bulgaria nella seconda metà degli anni ottanta, o gli eventi in Kossovo a partire dal 1981. Oltre, ovviamente, alla guerra in Bosnia.
In quest'ottica, il potenziale di una percezione di "clash of civilization" con l'Ortodossia balcanica, che è peraltro psicosi di segno opposto già diffusa tra gli ortodossi, è notevole. Tanto più che la tendenza ad omogeneizzare l'immagine del nemico è una delle caratteristiche più evidenti del codice della crisi balcanica.
Altro elemento da considerare, su un piano più operativo, è l'eccezionale crescita demografica di tutte le popolazioni musulmane dei Balcani. La "bomba demografica" musulmana nella regione è sicuramente l'elemento di medio-lungo periodo che ha il potenziale destabilizzante più notevole, se non oggettivamente sicuramente agli occhi degli altri attori, che è quel che conta.
I dati per la ex Jugoslavia, indicativi di una realtà comune anche al resto della regione, evidenziano la vera e propria catastrofe demografica delle popolazioni slave-cristiane rispetto a quelle musulmane o maggioritariamente musulmane. Secondo il censimento jugoslavo del 1981, il tasso medio di accrescimento annuo degli Albanesi del Kossovo era del 25,3 per mille, il più alto in Europa, mentre quello dei Musulmani di Bosnia era del 15,4 per mille, per lo più concentrato tra le popolazioni rurali e dei piccoli centri delle valli della Bosnia centrale (in particolare quella della Bosnia e della Lashva), della Krajina bosniaca e della regione di Bihac: un elemento che incideva in Bosnia sulla tradizionale ripartizione di potenza demografica, assegnando ai Musulmani la preminenza nelle città e alle altre etnie il controllo della maggior parte delle terre agricole (Serbi) e di una serie di centri e regioni ben definite (Croati).
A fronte di questi dati, Serbi e Croati registravano una crescita annua complessiva intorno al 4 per mille, e cioè meno di un sesto di quella degli Albanesi e pari a poco meno di un quarto di quella dei Musulmani di Bosnia. Naturalmente, questi dati vanno scomposti e analizzati in dettaglio per comprenderne gli elementi strutturali esatti (4) . Tuttavia, essi hanno una forza oggettiva che non può essere ignorata, a prescindere dall'esistenza o meno di una deliberata "strategia demografica" delle popolazioni musulmane nella ex Jugoslavia. Si pensi soltanto che nel 1990 gli Albanesi del Kossovo fornivano, da soli, oltre l'80% della crescita demografica complessiva di tutta la repubblica serba.
Questa pressione demografica, nel contesto balcanico ed ex jugoslavo, si articola in una serie di fenomeni-tipo oggettivamente destabilizzanti dell'equilibrio micro e macro regionale.
In tale contesto la densità demografica costituisce, nella realtà balcanica, il principale titolo di controllo sul territorio (un fenomeno cristallizzato nella cultura popolare, di cui è emblematico il detto albanese che "chi possiede le pecore possiede anche i pascoli"). Ciò soprattutto per la fragilità e mutevolezza storica dei confini balcanici, che svaluta il valore inclusivo od esclusivo delle linee di demarcazione politica.
Le pressioni demografiche provocano spesso, peraltro, delle reazioni simmetriche compensative nella parte demograficamente in declino. Così, ad esempio, la natalità dei Serbi del Kossovo è stata nel corso degli anni ottanta circa doppia della media dei serbi nel resto della Repubblica.
La crescita demografica ha un impatto duplice, perché agisce sia in termini assoluti che relativi. La crescita demografica rafforza la piattaforma politica della popolazione in ascesa aumentandone la consistenza assoluta e la percentuale nella composizione della regione considerata. Così, uno dei leaders degli Albanesi del Kossovo può utilizzare, per rivendicare l'indipendenza della regione, sia il fatto che gli Albanesi vi costituiscono il 92% della popolazione, sia l'esistenza di "due milioni di Albanesi kossovari": argomenti eterogenei e non intercambiabili da un punto di vista logico (5) .
L'impatto della crescita demografica è particolarmente sensibile in alcuni settori vitali delle società delle regioni considerate. Si pensi, ad esempio, al problema incontrato dalle Forze Armate macedoni all'indomani dell'indipendenza, con un serbatoio di coscritti dominato dagli Albanesi, per la loro superiore natalità nelle classi di popolazione più giovane.
Il differenziale nella crescita demografica delle popolazioni musulmane nei Balcani, concentrato nelle classi più giovani, si traduce in aspettative negative riguardo il futuro da parte delle altre popolazioni direttamente coinvolte. La necessità di evitare la "sopraffazione" demografica delle future generazioni dei Serbi di Bosnia è, ad esempio, uno dei temi fondamentali della propaganda serbo-bosniaca di Pale.

Il fenomeno della crescita demografica delle popolazioni musulmane nei Balcani è l'elemento che più contribuisce ad unificare la presenza musulmana agli occhi delle altre popolazioni balcaniche slavo-cristiane.
Questa omogeneizzazione si traduce nella costruzione dell'ormai celebre "dorsale verde": vale a dire del blocco territoriale e demografico ottenuto unendo idealmente le aree abitate dai Musulmani nei Balcani.
Si tratta di una linea che, partendo dalla minoranza musulmana nella Tracia greca, saldatura con la Turchia, prosegue per i territori stanziali della minoranza turca in Bulgaria, attraversa la Macedonia nella zona occidentale a prevalenza albanese, si allarga nello spazio etnico albanese del Kossovo e dell'Albania e si salda alla Bosnia tramite il Sangiaccato, per arrivare sino alle soglie di Zagabria.
L'assioma su cui è fondata questa costruzione concettuale è il movimento di unione o avvicinamento di tutte le componenti della "dorsale verde", che implica l'emergere di una pericolosa formazione demografico-territoriale nei Balcani.
La potenzialità distruttiva è data dal fatto che la dinamica di unificazione presuppone l'abbandono, da parte delle popolazioni musulmane, degli Stati di appartenenza, senza peraltro rinunciare ai territori di stanziamento.

Quella della "dorsale verde" è una ipotesi che, al di là della sua verosimiglianza e della valenza apocalittica con cui viene presentata, è oggi un tema centrale del dibattito strategico dei Balcani (6) . In particolare, nell'ambito delle maggioranze slave cristiane della regione, dove la "dorsale verde" ha una funzione di reazione alla minaccia percepita, costituita anzitutto dalla crescita demografica delle popolazioni musulmane.
Proprio questa centralità impone l'analisi di questa costruzione geopolitica. Bisogna in particolare vedere se, in una prospettiva di lungo termine, sia ipotizzabile un processo di sinergia ed avvicinamento delle popolazioni musulmane dei Balcani, e quale possa esserne l'effetto.
La risposta appare allo stato attuale negativa, per una serie di motivi.
Gli elementi costitutivi della "dorsale verde" sono, infatti, eterogenei dal punto di vista etnico. Accanto a popolazioni di fede musulmana che si autopercepiscono come slave, ad esempio i Musulmani di Bosnia, ve ne sono altre che invece resistono a questa definizione etnica, come gli Albanesi o le popolazioni turche di Tracia e di Bulgaria. È difficile ipotizzare che l'elemento universalistico dell'Islam possa portare al superamento di queste differenze. Va inoltre sottolineato che un movimento di unificazione avrebbe conseguenze distruttive anche all'interno dei singoli attori. Alcuni di essi, ad esempio, sono sensibili all'esigenza di evitare l'identificazione con elementi più lontani dall'integrazione con il mondo occidentale e più "orientali".
Un movimento unitario presuppone, inoltre, l'esistenza di una popolazione capace di assumere la funzione di leader. Questa sembra mancare per ragioni oggettive, come l'assenza di un gruppo musulmano predominante secondo i parametri di potenza classici.
Le popolazioni musulmane hanno, del resto, piattaforme politiche diverse. Se gli Albanesi del Kossovo mantengono una piattaforma indipendentista, la minoranza turca della Bulgaria è pienamente integrata nel sistema politico della nazione di appartenenza: al punto da essere diventata il potente ago della bilancia nelle dinamiche interne del Parlamento di Sofia.
Infine, non è ancora emersa all'interno del mondo islamico dei Balcani un'unica potenza musulmana esterna di riferimento. Anche se questo è uno dei livelli più difficili da penetrare per osservatori esterni, è evidente che una competizione è in atto fra i principali paesi musulmani per ritagliare sfere di influenza. Anche se vi sono indicatori di sinergie ed accordi, è improbabile, allo stato attuale, che possa emergere una chiara figura di leadership. Tale assenza rende tuttavia improponibile un disegno politico unitario delle componenti dell'Islam balcanico.

Quanto detto finora non si applica all'ipotesi di un'omogeneizzazione, non delle popolazioni musulmane, quanto piuttosto delle loro leaderships. Questo avvicinamento potrebbe essere il frutto dell'azione di stati-sponsors, e verrebbe indubbiamente facilitato da un processo di radicalizzazione interno alle stesse leaderships, che potrebbe fornire un collante ideologico capace di diminuirne l'eterogeneità di partenza. Uno sviluppo di questo tipo potrebbe indubbiamente aumentare il peso specifico dei paesi esterni promotori.
A questo riguardo, vanno evidenziati alcuni degli elementi strutturali del rapporto tra mondo islamico e musulmani dei Balcani, ed in particolare della ex Jugoslavia, al di là di analisi di dettaglio che esulano dai limiti di questo articoli.
A partire dalla seconda metà degli anni sessanta (7) , il regime titoista dette avvio a una apertura, a tutto campo, nei confronti del paesi musulmani, approfittando del ruolo leader della Jugoslavia nel movimento dei Paesi non allineati. E per facilitare questa politica, che aveva anzitutto una motivazione economica, le autorità jugoslave aprirono il territorio alla galassia del terrorismo e dell'attivismo islamico.
Le élites musulmane jugoslave, in particolare quelle bosniache, divennero lo strumento logico di penetrazione e di raccordo con i nuovi mercati, venendo - di fatto - utilizzate da aziende di tutte le repubbliche. Prodotto tipico di questo periodo è l'ex primo Ministro bosniaco Silajdzic, uno dei padri dell'indipendenza della repubblica, figlio di un alto esponente della gerarchia musulmana di Sarajevo, studi di perfezionamento universitario a Bengasi, che era diventato ambasciatore itinerante delle aziende jugoslave nei paesi nordafricani.
Va notato che i rapporti stretti, all'epoca, dai dirigenti bosniaci attuali servono ancora a definirne l'appartenenza alle varie correnti politiche interne, anche se in questo campo la realtà riserva talvolta notevoli sorprese.
La rete di rapporti economici creati allora si è in buona parte mantenuta, estendendosi anche alla sfera politica.
A questa va aggiunta l'importanza dell'appoggio finanziario fornito dai paesi musulmani alla dirigenza bosniaca, molto importante in una guerra particolarmente cash intensive. Un aiuto che, dal punto di vista politico, è sicuramente più determinante della partecipazione al processo di ricostruzione della repubblica.
Da un punto di vista strutturale, il paese meglio posizionato per guadagnare un ruolo di tutela delle popolazioni musulmane dei Balcani rimane la Turchia. Ciò soprattutto in assenza di una radicalizzazione religiosa delle classi dirigenti.
Punto di forza del ruolo della Turchia è senz'altro, oltre al peso dei legami storici, la presenza di consistenti gruppi di popolazioni di origine balcanica al proprio interno, sia di stanziamento storico che recente. Questi gruppi, in particolare i due milioni di cittadini turchi di "origine" bosniaca, sono un potente condizionamento e stimolo della politica estera turca.
Questo era vero soprattutto durante il periodo di esplosione dell'impegno internazionale di Ankara, sotto la presidenza Özal, che aveva trovato nei Balcani un teatro d'azione forse ancora più privilegiato di quello dello spazio turcofono nel Caucaso e nell'Asia centrale ex sovietica. Il ritorno ad una interpretazione più ortodossa del kemalismo in politica estera, proprio della presidenza Demirel, non ha tuttavia ridotto il coinvolgimento di Ankara nella crisi balcanica. Naturalmente, l'atteggiamento turco è determinato sia dalla necessità di aumentare il proprio peso specifico in una regione di influenza elettiva della Grecia, sia di rispondere al ruolo di potenza-tutore moderata dei Musulmani balcanici conseguenza del ruolo internazionale della Turchia. In ogni caso, le dinamiche interne del sistema politico turco porteranno con ogni probabilità a mantenere, se non ad aumentare, l'impegno nella regione.

Se il problema della "dorsale verde" non ha, allo stato attuale, un significato strategico reale nello scenario balcanico, conviene analizzare il ruolo geopolitico delle popolazioni musulmane o a maggioranza musulmana dei balcani considerate individualmente. Più in particolare, conviene concentrarsi su quell'aspetto del problema che ha il maggior potenziale destabilizzante d'area: e cioè sulla questione albanese, che ormai va considerata nella sua duplice ramificazione del Kossovo e della Macedonia.
Il problema dello spazio balcanico dominato etnicamente dagli Albanesi (Albania, Kossovo, regioni occidentali della Macedonia) è la questione più rilevante, a fronte dell'esistenza di una minoranza transnazionale nei Balcani, sia in termini assoluti (consistenza complessiva delle minoranze coinvolte), che relativi (dimensione delle minoranze coinvolte in rapporto alla popolazione originaria di riferimento, in questo caso gli Albanesi di Albania).
Per di più, l'area di incidenza della questione albanese coincide con il quadrante più delicato, dal punto di vista geopolitico, di tutta la penisola balcanica: vale a dire la dorsale di comunicazione incentrata sulle valli della Morava e del Vardar, con la ramificazione del sistema Nishava-Maritsa.
L'importanza strategica di questo asse non può essere sopravvalutata. Esso costituisce, allo stato attuale, la più importante via di comunicazione terrestre in direzione Nord-Sud di tutta la penisola balcanica. È inoltre il cardine di snodo anche delle comunicazioni Est Ovest. Per l'Italia, è stato da sempre la via privilegiata di trasferimento via terra del flusso di merci verso i mercati balcanici, orientali e mediorientali (8) .
Il controllo della parte meridionale della via Morava-Vardar è stato, ad esempio, il tema strategico dominante delle guerre balcaniche del 1912-1913. Ed è un fattore basilare nell'analisi della questione macedone sia a livello strutturale che storico.
Il sistema Vardar-Morava, nella sua parte meridionale, attraversa tutta l'area interessata dalla questione albanese. La strada Belgrado-Salonicco non passa per il Kossovo, ma attraversa il territorio dell'opshtina di Preshevo, appartenente amministrativamente alla Serbia, immediatamente contigua al Kossovo ed abitata da una maggioranza albanese. Non è certo un caso che l'unico progetto di scambio territoriale del Kossovo, ufficialmente appoggiato dalla leadership kossovara albanese riguardi proprio Preshevo, che dovrebbe essere accorpata al Kossovo, in cambio di comuni a maggioranza serba attualmente ricompresi nella regione.
Un'esplosione della questione albanese, sia nel Kossovo che in Macedonia, porterebbe alla chiusura di questo asse fondamentale, perpetuando lo stato di inagibilità conseguente al regime di sanzione contro la federazione di Serbia e Montenegro. Tale esplosione potrebbe, soprattutto, dare inizio ad una destabilizzazione globale dei Balcani, molto più grave di quella causata finora dal conflitto in Bosnia.
A questo riguardo, gli scenari che incontrano un consenso universale sono due, convenzionalmente definiti dell'implosione della Macedonia e dell'esplosione del Kossovo.
L'implosione della Macedonia muove da un eventuale drastico deterioramento nei rapporti tra maggioranza macedone e minoranza albanese (9) . Questo movimento endogeno (di qui il termine implosione) porterebbe alla partizione di fatto della repubblica, con la perdita della parte occidentale, abitata prevalentemente dagli Albanesi. Ciò riaprirebbe la questione macedone, con il prevedibile intervento, diretto o indiretto, delle potenze confinanti, a cominciare dalla Bulgaria.
Lo scenario dell'implosione, pur se pericolosissimo, sarebbe comunque meno destabilizzante dell'esplosione del Kossovo. Questo perché difficilmente potrebbe proiettare all'esterno del paese grandi masse di popolazione, elemento di rottura immediato e non controllabile.
In effetti, le autorità macedoni non hanno le risorse strategiche per poter pensare di risolvere la situazione con azioni di espulsione della popolazione albanese, che ha sicuramente la possibilità di mantenere il possesso dei territorio maggioritari, se non di minacciare selettive estensioni degli stessi.
L'assenza di movimenti ingenti e rapidi di rifugiati, consentiti dal possesso di macchine e dall'esistenza di direttrici di traffico in uscita, permette di ipotizzare il contenimento, almeno a breve termine, della tensione all'interno dei confini della repubblica.
Il contrario, invece, potrebbe accadere nel caso dell'esplosione del Kossovo.
Questo scenario è ipotizzabile come conseguenza di una repressione da parte delle forze di polizia e militari serbo-federali contro la popolazione albanese, provocata, ad esempio, dall'avvio di una campagna di protesta globale. In via teorica, ciò potrebbe provocare la migrazione di una massa di popolazione difficilmente valutabile, ma stimabile nell'ordine di centinaia di migliaia di unità. Questi rifugiati potrebbero avere solo due mete, almeno in via temporanea: l'Albania e la Macedonia.
L'arrivo dei rifugiati albanesi in Macedonia, con uno scenario di stile libanese, altererebbe stabilmente il profilo demografico della repubblica, incentivando oggettivamente la separazione delle regioni occidentali. E' ipotizzabile inoltre un intervento della Serbia in queste aree, che potrebbero diventare immediatamente un santuario per eventuali azioni di resistenza degli Albanesi. Ciò globalizzerebbe la questione con l'intervento, come minimo indiretto, di tutte le potenze regionali. Inoltre, la Macedonia non ha la possibilità di sostenere flussi di popolazione di queste dimensioni. Ciò porterebbe ad un loro spostamento non verso la Grecia, che presumibilmente si opporrà con ogni mezzo all'ingresso di decine di migliaia di profughi albanesi; né verso la Bulgaria, se non altro perché si frappone il territorio a maggioranza macedone della Macedonia stessa. Non rimarrebbe quindi altra scelta che indirizzarsi verso l'Albania, dove il carico dei rifugiati, anche per le ripercussioni interne sulla società albanese, diventerebbe insostenibile. Non è impossibile, a questo punto, ipotizzare un coinvolgimento dell'Italia, che sarebbe oggettivamente una destinazione elettiva per queste popolazioni.
Questo scenario, apocalittico e teorico, non è tuttavia impensabile, ed impone la soluzione del problema del Kossovo. Due sono le opzioni possibili, la concessione dell'autonomia e la partizione preventiva della regione come preludio alla sua indipendenza
La concessione alla popolazione albanese di un'autonomia anche ampia, ammesso che la leadership serba riesca a "venderla" sul piano interno, non appare sufficiente, considerando la piattaforma indipendentista condivisa da tutte le componenti della dirigenza kossovara.
L'altra ipotesi, che prevede una partizione preventiva, con scambio di territori e popolazioni, appare difficilmente praticabile. Circoli vicini all'ex presidente federale serbo, lo scrittore Dobrica Cosich, hanno appoggiato, nel 1992, un progetto in questo senso. Ma, al di là delle manchevolezze tecniche, efficacemente evidenziate da Michel Roux (10) , il progetto non scioglieva un nodo fondamentale: la necessità per la Serbia di mantenere almeno la parte settentrionale o nordorientale della regione, dove è concentrata la maggior parte (ma non la totalità) dei monumenti e dei luoghi storici più importanti per la storia e la Chiesa ortodossa serba. E dove sono concentrate la maggior parte delle risorse industriali, minerarie ed agricole del Kossovo.
In questa regione, peraltro, vive mezzo milione di Albanesi, che verrebbero scaricati nelle regioni occidentali più povere, con tutti i problemi che ne conseguono, compresa una probabile migrazione verso la Macedonia, aprendo lo scenario di crisi secondo le modalità già viste.
Allo stato attuale, questa prospettiva è inaccettabile per la dirigenza albanese. E si dimostra ancora una volta che, nei Balcani, "chi possiede le pecore possiede anche i pascoli".


(1) L'analisi più interessante sul problema dell'identità etnica dei musulmani di Bosnia rimane il fondamentale articolo di Sabrina Pedro Ramet "Primordial Ethnicity or Modern Nationalism: the Case of Yugoslavia's Muslims Reconsidered", The South Slav Journal vol. 13 n. 1-2, primavera-estate 1990.
(2) È questo, ad esempio, l'approccio della più importante opera recente sulla storia dell'Islam nei Balcani, il brillante e ricchissimo "Islam in the Balkans" (e non Balkan Islam) di Harry Thirlwall Norris, Hurst & Company, London 1993. Analogo anche l'approccio nella più recente opera globale sul problema delle minoranze nei Balcani comparso negli ultimi dieci anni, il libro di Hugh Poulton "The Balkans: Minorities and States in Conflict", Minority Rights Publications, London 1991. La ricchezza e diversità della presenza musulmana nei Balcani era già stata sottolineata da uno dei fondatori dei moderni studi balcanici, Jacques Ancel, nel suo imprescindibile "Peuples et nations des Balkans", Librairie A. Colin, Paris 1930.
(3) Su tutta la problematica delle formazioni geopolitiche si veda il fondamentale saggio del generale Carlo Jean, "Geopolitica", Laterza, Bari, 1995.
(4) È quanto fa Michel Roux nella sua opera sugli Albanesi della ex Jugoslavia, "Les Albanais en Yougoslavie", Éditions de la Maison des Sciences de l'Homme, 1992 Paris, soprattutto nelle pagg. 129-158. Va sottolineato che Roux rifiuta recisamente l'ipotesi di una "strategia demografica" albanese. Si veda anche l'articolo di Roux "Atlante degli Albanesi nei Balcani" su Limes, n. 1-1994.
(5) Rexhep Qosja "La question albanaise", Fayard, Paris 1995. Qosja è diventato, dalla fine del 1992, uno dei leaders dell'ala radicale non estremista del movimento kossovaro albanese in contrapposizione al "moderato" Presidente dell'autoproclamata repubblica del Kossovo. Le differenze ideologiche interne al movimento kossovaro sono in realtà sfuggenti e difficili da definire. Data per scontata la richiesta di indipendenza e autodeterminazione per la popolazione albanese della regione, Qosja auspica l'unificazione del Kossovo con l'Albania, senza tuttavia un'unificazione dello spazio etnico a maggioranza albanese con l'annessione della parte occidentale della Macedonia, richiesta propria degli estremisti.
Nel libro di Qosja viene valutata positivamente l'opera di mediazione dell'ex presidente della federazione serbo-montenegrina, lo scrittore Dobrica Cosic, e del leader dell'opposizione serba Djindjich, di cui vengono innocentemente ricordati i legami con la Germania, tema particolarmente controverso in Serbia.
(6) Quello della "dorsale verde" è un tema ossessivo non solo nelle pubblicazioni ultranazionaliste e marginali, ma anche nei media più diffusi e rispettabili. In Serbia, oltre ad essere banalizzato dagli organi di stampa più vicini alle posizioni dei Serbi di Bosnia (è il caso ad esempio del quindicinale Duga), viene anche utilizzato come strumento interpretativo da studiosi attendibili, come quelli dell'Istituto geografico dell'Accademia delle Scienze serba. In Croazia, il tema è continuamente analizzato sulle pagine dei giornali più diffusi da uno dei più noti esperti croati di politica internazionale e geopolitica, Radovan Pavic.
(7) Un'ottima analisi della parte "emersa" dei rapporti tra paesi islamici e repubblica bosniaca, nella fase iniziale del conflitto, si trova nell'articolo di Tarek Mitri "La Bosnia-Herzégovine et la solidarité du monde arabe et islamique", Monde Arabe Magreb Machrek n. 139 gennaio-marzo 1993. Molto più impraticabile il panorama delle fonti sul versante dei rapporti più coperti. Uno studio, tuttavia ben informato, è il rapporto di Jossef Bodansky e Vaughn Forrest, "Iran's European Springboard?" preparato per la Task Force on Terrorism and Unconventional Warfare dal centro studi del gruppo repubblicano del Congresso americano.
(8) Per una ricca e profonda analisi delle opzioni dell'Italia nella crisi jugoslava e nei Balcani si veda l'articolo a firma Miles, "Quali balcani convengono all'Italia", Limes n. 3-1995.
(9) La consistenza esatta della popolazione albanese nella repubblica macedone è un elemento estremamente controverso e dibattuto a Skopje. La dirigenza albanese, che ha interesse ad ingigantire i dati, parla ufficialmente del 30-35%. Il censimento che si è tenuto in Macedonia lo scorso autunno non ha dato risultati conclusivi (gli Albanesi venivano dati al 23%), in quanto è stato boicottato da una parte apprezzabile della popolazione minoritaria. Era peraltro opinione comune dei "monitors" internazionali che il boicottaggio fosse un modo per svalutare in partenza dei risultati che avrebbero dimostrato una presenza albanese nettamente inferiore a quella sostenuta dai loro leaders politici.
(10) In "Atlante degli Albanesi nei Balcani", Limes, n. 1 1994.

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